Sono sempre stato un appassionato di calcio inglese. Sin da bimbo, sin da quando in una televisione locale di Roma (TeleRoma 56, se non ricordo male) Michele Plastino trasmetteva “Football Please”. Non era tanto il gioco che mi interessava, quanto gli stadi, così piccoli ma ben più affascinanti rispetto all’Olimpico, con quella stramaledetta pista d’atletica; i campi, in cui l’erba era spesso una variante alla preponderante presenza del fango; ma soprattutto le folle dietro alle linee di fondo, che si scuotevano a mo’ di onda per un tiro non lontano dalla porta, che esplodevano per un gol realizzato, che rimanevano impassibili per un gol subito senza che una sola persona intaccasse l’immobilità generale anche con un solo gesto del braccio. Per i cori, le canzoni, e per le tifoserie in trasferta, sempre presenti in buon numero anche quando la squadra era retrocessa. E poi i nomi, tutti quei Wanderers, Rovers, United, che solo il nominarli ti faceva sentire in un altro mondo.
Da quegli anni lontani ho sempre seguito il calcio inglese tramite il Guerin Sportivo, che pubblicava la classifica anche della Second Division, unico campionato europeo ad avere questo onore; poi comprando a carissimo presso le riviste di calcio inglese in Italia (Shoot!, Match). Non ho mai avuto una simpatia troppo spiccata per una squadra, anzi erano poche quelle che mi lasciavano indifferente. Poi è arrivato Internet ed è stato naturale interessarmi alle divisioni minori, anche le non professionistiche.
AFC Wimbledon. Sapevo bene naturalmente della Crazy Gang, della vittoria della Coppa d’Inghilterra del 1988, di Plough Lane, di Selhurst Park. Sapevo che c’erano state voci di uno spostamento della società a Dublino (!). Ma sinceramente ne avevo perso le tracce: gli anni a cavallo dei 2000, per un tifoso della Lazio come me, sono stati piuttosto intensi e difficilmente ripetibili. Ironia della sorte il 14 maggio 2000, proprio nei minuti in cui festeggiavo il secondo scudetto della mia squadra, il Wimbledon retrocedeva nella seconda divisione, dopo 14 anni di First Division prima e di Premier League poi.
Ma incontro delle immagini: AFC Wimbledon v Luton Town, prima giornata della Conference 2008/2009. Folgorazione. Il Wimbledon: hanno ricominciato da capo, i tifosi. Una speculazione unica nello sport europeo, lo spostamento di un club, radicato nella sua comunità, in una città a decine di miglia di distanza di nome Milton Keynes, mai sentita nominare. Il sistema della “franchigia”, normale nel mondo dello sport americano (Utah Jazz? Quanti mormoni possiedono collezioni di dischi di jazz?) applicato dove è nato il Football.
Da quel momento non sono più riuscito a liberarmi dai Dons. Ho cominciato a “studiare” la loro storia, i campionati minori disputati, partendo da un livello assimilabile a grandi linee alla nostra seconda categoria e salendo anno dopo anno per ritornare nove anni dopo la rinascita del 2002 alla Football League. Erik Samuelson, Ivor Keller, Kris Stewart, migliaia di altri tifosi: lottano per evitare lo scempio del furto del proprio club, perdono; potrebbero disinteressarsi del calcio, schifati; tifare altre squadre, grandi squadre che certo a Londra non mancano. No, ricominciano. Ricominciano dai campetti di quartiere, che a noi Italiani possono anche sembrare pittoreschi e commoventi nella loro semplice bellezza, ma bisognerebbe immedesimarsi in quei tifosi che non più di tre anni prima organizzavano trasferte ad Anfield Road e all’Old Trafford.
È stata questa determinazione a conquistarmi e che mi ha portato a considerarmi, se non un tifoso – non ho vissuto io quello che hanno vissuto loro – un fedele seguace dei Dons. Fino a decidermi a fondare una pagina su Facebook: “Show me the Way to Plough Lane”, un canto da stadio dal retrogusto malinconico, nato da quel sentimento, la topofilia, che solo in Inghilterra può essere accostato al football.
Mi sono sorpreso ad avere mal di stomaco seguendo il sorteggio di FA Cup dello scorso novembre che sanciva l’incontro di calcio che mai avrebbe dovuto esserci, la sfida contro quella mostruosità del Milton Keynes Dons, ma che tutto sommato ha avuto il pregio di riportare a livello nazionale inglese l’ingiustizia che a suo tempo una mera speculazione finanziaria decretò la fine di un club. A seguire il campionato di quarta divisione inglese; questo appena terminato, poi, tremendo: scoramento, un po’ di speranza, ancora scoramento, capire l’inevitabilità della retrocessione e poi gioire proprio all’ultima giornata per la salvezza della squadra.
Non sono mai stato a vedere i Dons dal vivo, e durante i miei pochi viaggi in Inghilterra ho avuto l’occasione di vedere soltanto tre-quattro partite. Naturalmente è la mia speranza. Diciamo che mi sento un Emilio Salgari in sedicesimo (mi si passi il paragone), che non essendosi mai mosso da casa narrava le avventure di Sandokan nella giungla malese con ricchezza di particolari.
Da quello che ho letto, anche da chi segue la mia pagina, l’ambiente del Wimbledon è molto familiare e non è difficile parlare con il presidente, Erik Samuelson, sempre disponibile. Lo stadio, condiviso con il Kingstonian, gli originari proprietari, contiene all’incirca 5000 spettatori, e mantiene le terraces su due lati. Se vogliamo proprio dirlo, uno stadio da non-league, che comunque mantiene i ricordi della rinascita e risalita dei Dons. Sono in corso progetti per riportare il Wimbledon a casa, a Merton, a poche centinaia di metri dal vecchio stadio e sulla medesima Plough Lane, ristrutturando il Greyhound. Ma sono operazioni molto lunghe e necessitano comunque di una squadra che mantenga il suo status professionistico.
Come detto, la speranza è di poter seguire dal vivo qualche partita del Wimbledon, un giorno. Vedere i luoghi della rinascita, assistere a una partita dalla Tempest End sotto le bandiere di Flaydon – alcune veri colpi di genio. Chissà.
Forza Wimbledon!
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